Lentamente muore
chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle “i”
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle
che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno
di uno sbadiglio un sorriso.....

Pablo Neruda





mercoledì 21 aprile 2010



La data della fondazione di Roma è stata fissata al 21 aprile dell'anno 753 a.C. (Natale di Roma) dallo storico latino Varrone, sulla base dei calcoli effettuati dall'astrologo Lucio Taruzio.

I Romani avevano elaborato un complesso racconto mitologico sulle origini della città e dello stato, che ci è giunto attraverso le opere storiche di Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco e quelle poetiche di Virgilio e Ovidio, quasi tutti appartenenti all'età augustea. In quest'epoca le leggende riprese da testi più antichi vengono rimaneggiate e fuse in un racconto unitario, nel quale il passato mitico viene interpretato in funzione delle vicende del presente.

I moderni studi storici e archeologici, che si basano sia su queste ed altre fonti scritte, sia sugli oggetti e i resti di costruzioni rinvenuti in vari momenti negli scavi, tentano di ricostruire la realtà storica che sta dietro al racconto mitico, nel quale man mano si sono andati riconoscendo alcuni elementi di verità

Il mito racconta di una fondazione avvenuta ad opera di Romolo, discendente dalla stirpe reale di Alba Longa, che a sua volta discendeva da Silvio, figlio di Lavinia e di Enea, l'eroe troiano giunto nel Lazio dopo la caduta di Troia

Come si racconta nell'Eneide, Enea, figlio della dea Venere, fugge da Troia, ormai presa dagli Achei, con il padre Anchise e il figlioletto Ascanio. Il viaggio che Enea percorre prima di raggiungere le coste del Latium vetus (antico Lazio) è lungo e periglioso. Egli, infatti, per volere di Giunone, che si era adirata con lui, è costretto ad approdare a Cartagine dove, una volta accolto dalla regina della città, Didone, se ne innamora e rimane per un intero anno a regnare al suo fianco. Ma per ordine del Fato e di Giove, Enea è costretto a ripartire, prende la via dell'antico Lazio. La disperazione di Didone, nel vedere l'amato allontanarsi la porta a suicidarsi. Dopo nuove peregrinazioni nel Mediterraneo, Enea approda finalmente nel Lazio. Qui, Enea viene favorevolmente accolto dal re Latino e da sua figlia Lavinia. Enea, innamoratosi di lei deve però affrontare Turno, re dei Rutuli, a cui il padre l'aveva promessa in moglie.

Al termine di una dura e sanguinosa lotta che vede i contendenti, Turno da una parte ed Enea dall'altra, allearsi il primo con il tiranno etrusco Mezenzio e la maggior parte delle popolazioni italiche, il secondo con alcune popolazioni greche stanziate nella città di Pallante sul Palatino. Sia Tito Livio (Ab urbe condita libri, I, 7) che Ovidio (I Fasti, I, 470 e sgg.) narrano di una migrazione dalla città greca di Argo, guidata da Evandro e con gli Etruschi ostili a Mezenzio, la vittoria arrise ad Enea, che riuscì ad uccidere Turno in combattimento. Questo permise al termine della guerra di sposare Lavinia e fondare la città di Lavinio (l'odierna Pratica di Mare).

Trent'anni più tardi dalla fondazione di Lavinio, il figlio di Enea, Ascanio fonda una nuova città, Albalonga, sulla quale regnarono i suoi discendenti per numerose generazioni (dal XII all'VIII secolo a.C.) come ci racconta Tito Livio. Molto tempo dopo il figlio e legittimo erede del re Proca di Alba Longa, Numitore, viene spodestato dal fratello Amulio, che costringe la figlia Rea Silvia a diventare vestale e a fare quindi voto di castità.

Tuttavia il dio Marte s'invaghisce della fanciulla e la rende madre di due gemelli, Romolo e Remo. Il re Amulio ordina l'uccisione dei gemelli, ma il servo incaricato di eseguire l'assassinio non ne trova il coraggio e li abbandona alla corrente del fiume Tevere. La cesta nella quale i gemelli sono stati adagiati si arena sulla riva, presso la palude del Velabro tra Palatino e Campidoglio in un luogo chiamato Cermalus,dove i due vengono trovati e allevati da una lupa che si era recata al fiume per abbeverarsi (probabilmente una prostituta, all'epoca chiamate anche lupae, di cui si ritrova oggi traccia nella parola lupanare), e da un picchio (animale sacro per i Latini) che li protegge, entrambi animali sacri ad Ares. Li trova poi il pastore Faustolo (porcaro di Amulio) che insieme alla moglie Acca Larenzia li cresce come suoi figli.

Una volta divenuti adulti e conosciuta la propria origine, Romolo e Remo fanno ritorno ad Albalonga, uccidono Amulio, e rimettono sul trono il nonno Numitore. Romolo e Remo, non volendo abitare ad Alba senza potervi regnare almeno fino a quando era in vita il nonno materno, ottengono il permesso di andare a fondare una nuova città, nel luogo dove sono cresciuti. Lo stesso Tito Livio aggiunge che del resto la popolazione di Albani e Latini era in eccesso, mentre Plutarco aggiunge:

« Decisero dunque di vivere per conto loro, fondando una città nei luoghi in cui erano cresciuti da piccoli. Questa risulta la spiegazione più plausibile. Ma nello stesso tempo la fondazione diventava per loro una necessità, poiché molti servi e altrettanti ribelli si erano raccolti attorno ad essi... »
(Plutarco, Vita di Romolo, 9, 1-2)

Romolo vuole chiamarla Roma ed edificarla sul Palatino, mentre Remo la vuole battezzare Remora e fondarla sull'Aventino. È lo stesso Livio che riferisce le due più accreditate versioni dei fatti:
« Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dei che proteggevano quei luoghi indicare, attraverso gli aruspici, chi avessero scelto per dare il nome alla nuova città e chi vi dovesse regnare dopo la fondazione. Così, per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l’Aventino. Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re l’uno e l’altro contemporaneamente. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra. È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette [più probabilmente il pomerium, il solco sacro] e quindi Romolo, al colmo dell’ira, l’avrebbe ammazzato aggiungendo queste parole di sfida: «Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura». In questo modo Romolo s’impossessò da solo del potere e la città appena fondata prese il nome del suo fondatore. »
(Livio, I, 7 – )

La versione raccontata da Plutarco è molto simile a quella di Livio, con la sola eccezione che Romolo potrebbe non aver avvistato alcun avvoltoio. La sua vittoria sarebbe pertanto stata per alcuni, frutto dell'inganno. Questo il motivo per cui Remo si adirò e ne nacque la rissa che portò alla morte di quest'ultimo. La città, di forma quadrata, fu quindi fondata sul Palatino e Romolo divenne il primo Re di Roma

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