Lentamente muore
chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle “i”
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle
che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno
di uno sbadiglio un sorriso.....

Pablo Neruda





domenica 31 ottobre 2010



Al Maximall di Pontecagnano: Reality in Gallery

DI MARIA SERRITIELLO



Quattro ragazzi, per diciassette giorni, sotto l’occhio delle telecamere, 24 ore su 24, vivono all’interno di Maximall, il centro commerciale di Pontecagnano (Sa). Il Reality Show, organizzato e somigliante in tutto e per tutto a quello più noto, il “Grande Fratello”, della tv commerciale, giunto, ormai, all’undicesima edizione, ha avuto inizio il 22 ottobre scorso, per terminare il 7 novembre prossimo. “Reality in Gallery al Maximall” può essere seguito 24 ore su 24 via internet, cliccando sul sito www.realityingallery.it. L’iniziativa, la prima in Italia organizzata all’interno degli spazi di un centro commerciale, è stata voluta fortemente dalla Direzione del Centro Maximall, unitamente alla collaborazione di tutti i negozi della galleria di Pontecagnano. Non sono mancati gli sponsor: Mobilificio Domus Arredo, Last minute and Go, Telecolore, Radio Bussola24, per sostenere l’impegno del centro commerciale.

Davide, Daniela, Vito e Katia vivono un sogno, restando chiusi all’interno di un negozio della galleria e sono visibili al pubblico attraverso le vetrine trasparenti. I quattro ragazzi, quasi tutti ventenni, provenienti da Eboli e Battipaglia, sono bene inseriti nella realtà in cui vivono, lavorano, studiano, si divertono come i loro coetanei.

I concorrenti hanno deciso di partecipare al Reality, dopo un’accurata selezione che li ha consacrati vincitori, un po’ per gioco e un po’ per potersi concedere, in caso di vittoria, il viaggio premio a Sharm El Sheik, posto in palio. Anche per i visitatori del sito, che possono seguire in diretta i 4 ragazzi e votarli, c’è un premio di consolazione, ossia concorreranno ad un’estrazione finale, un pacchetto “Boscolo Gift” per un weekend, con destinazione a scelta. Tutti contenti intorno a loro: madre, padre, fratelli e sorelle, amici e perfino i fidanzati/e, che tifano, votano e fanno votare attraverso due modalità: on site e on line.

Come trascorrono il tempo, 17 giorni non sono pochi a stare chiusi come pesci in una palla, Davide, Daniela Vito e Katia? Praticamente stravaccati sui divani che fanno parte dell’arredo del negozio, oppure a terra sulla morbida moquette, parlando, dibattendo, non si sa bene su cosa, approfondendo l’amicizia, nata all’interno della vetrina, fuori erano dei perfetti sconosciuti e giocando a carte, ci tengono a farlo sapere, costruite con le loro mani. I ragazzi, infatti, non hanno nient’altro a disposizione che carta e pennarelli colorati. Vivaddio, a volte, la necessità aguzza l’ingegno! Eppure vederli dietro ai vetri, privati volontariamente del sole e dell’aria, chiusi e sacrificati, fanno un certo effetto, una certa tenerezza, là, prigionieri ci sono rinchiusi pur sempre i nostri ragazzi, i nostri i giovani nutriti e cresciuti, da almeno dieci anni da Maria De Filippi con i suoi “Amici” e “Uomini e Donne”, seguiti a ruota e per non essere da meno da “X Factor e L’Isola dei Famosi” della tv pubblica.

Ragazzi emancipati Davide , Daniela, Vito e Katia, certo, che conoscono approfonditamente le tecniche e i meccanismi informatici, ma impastati di sommaria cultura, quella che gli fa desiderare un utile immediato, quello a lungo termine poi si vedrà. Costantemente aggrappati al presente, considerano questa del Reality, un’esperienza da non perdere, un’esperienza in più, una delle tante da aggiungere alla loro giovane formazione. Si reputano quasi degli eroi a vivere come fanno in una condizione prigioniera, hanno barattato con disinvoltura la libertà per un viaggio che solo uno di loro vincerà, ma tutti e quattro, per 17 giorni, saranno al centro di una galleria commerciale, protagonisti assoluti di un sito internet, come vedette, come quelle del loro programma preferito e si capisce quale. Un vantaggio da non trascurare e in alcun modo considerato dai protagonisti, in tutto questo c’è, infatti, per 17 giorni ai ragazzi sarà impedito di guardare la tv, un’occasione unica, una bella cura disintossicante, un premio nel premio ma certamente non considerato da loro, nel giusto valore.

Maria Serritiello
www.lapilli.eu

sabato 30 ottobre 2010



« Giocare contro Maradona è come giocare contro il tempo perché sai che, prima o poi, o segnerà o farà segnare. »
(Arrigo Sacchi da La storia del grande Milan – ESPN Classic)
« Il 30 ottobre 1960 è nato l'uomo che ha cambiato la Storia del calcio mondiale, il giocatore più forte di tutti i tempi, il campione che ha elevato Napoli nella leggenda immortale[2] »
(Aurelio De Laurentis per i 50 anni di Maradona)

Diego Armando Maradona (Lanús, 30 ottobre 1960)

un allenatore di calcio ed ex calciatore argentino, di ruolo centrocampista offensivo ed attaccante, capitano della Nazionale argentina di calcio vincitrice del Mondiale del 1986. Ha partecipato a quattro diverse edizioni dei mondiali: 1982, 1986, 1990, 1994, andando a segno in tutte tranne nel 1990[3]. I suoi 91 match e 34 reti con la Nazionale argentina costituirono un record, successivamente battuto da Javier Zanetti, Roberto Ayala, Diego Simeone e Oscar Ruggeri per le presenze e da Gabriel Omar Batistuta e Hernán Crespo per i gol[4]. La Federazione calcistica dell'Argentina (AFA) gli ha inoltre assegnato il titolo di "Miglior Calciatore Argentino di sempre" nel 1993[5].

Noto anche come El Pibe de Oro (Il Ragazzo d'Oro), considerato tra i più talentuosi calciatori di tutti i tempi, ha militato nell'Argentinos Juniors, nel Boca Juniors, nel Barcellona, nel Napoli, nel Siviglia e nel Newell's Old Boys in una carriera da professionista più che ventennale. Alla fine del 2000 è stato eletto da un sondaggio popolare indetto dalla FIFA miglior calciatore di tutti i tempi col 53,6% dei voti[6][7]. Fu eletto Calciatore dell'anno nel 1986 dalla rivista inglese World Soccer[8] e occupa la 2a posizione nella speciale classifica dei migliori calciatori del XX secolo pubblicata dalla stessa rivista[9]. In una votazione tenutasi nel 2000 per l'IFFHS a cui hanno partecipato giornalisti ed ex-calciatori, Maradona è risultato il 5° miglior giocatore del XX secolo dopo Pelè, Johan Cruijff, Franz Beckenbauer e Alfredo di Stéfano[10].

Ritenuto una delle figure più controverse della storia del calcio, fu sospeso due volte per positività a test antidoping nel 1991 (per uso di cocaina) e nel Mondiale 1994 (per uso di efedrina): dopo il suo ritiro ufficiale dal calcio nel 1997, ha subìto un aumento eccessivo di peso (risolto con l'ausilio di un bypass gastrico) e le conseguenze della dipendenza dalla droga, dalla quale si è liberato dopo lunghi soggiorni in centri di disintossicazione. Successivamente è stato inserito da Pelè nel FIFA 100, la lista dei 125 migliori calciatori viventi divulgata il 4 marzo 2004, in occasione del centenario della federazione[11] ed è diventato nel 2005 una star della TV argentina con il suo show La Noche del 10. Nonostante la poca esperienza nel ruolo, nel novembre 2008 è stato nominato CT dell'Argentina[12] con il compito di condurre la nazionale nelle qualificazioni per i Mondiali del 2010, obiettivo infine raggiunto nell'ottobre 2009. L'AFS (Association of Football Statisticians'), classificando i 100 più grandi calciatori di sempre secondo un criterio puramente statistico, lo ha incluso al 6º posto

« Ho due sogni: il primo è giocare un Mondiale, il secondo è vincerlo. »
(Diego Armando Maradona nel giugno del 1978)


Nella cultura popolare
Sin dalla vittoria del Mondiale 1986, gli argentini usano il nome di Maradona per farsi riconoscere come suoi compatrioti in tutte le parti del mondo: in Argentina e a Napoli il campione argentino è indicato come simbolo ed eroe dello sport[45] (lo sportivo è infatti un mito "democratico", in quanto pone le sue basi nella gente comune: è infatti rappresentante del popolo e dei suoi valori[45]). Maradona incarnò perfettamente questo spirito, date le sue umili origini e la sua originaria bassa condizione sociale: i molteplici guadagni non gli fecero perdere i modi di esprimere e il vocabolario proprio della frangia meno agiata della popolazione. A ciò si aggiunse il suo schierarsi contro i "poteri forti": in particolar modo con i napoletani che lo videro come un rappresentante degli "oppressi" del Sud Italia che lottava contro lo "strapotere" delle squadre del Nord[45]. Numerose furono anche le "battaglie" combattute contro i "poteri forti" come la FIFA (e il suo presidente Havelange), e la AFA presieduta da Grondona[46].


L'altarino dedicato a Maradona, in via San Biagio dei Librai a NapoliFu anche per questo e non solo per le sue prodezze nei campi di calcio che Maradona venne in pratica idolatrato sia dagli argentini che dai napoletani[47]. A Rosario, in Argentina, i suoi tifosi fondarono nel 1998 la Iglesia Maradoniana (Chiesa di Maradona)[48], dove il calendario si calcola contando gli anni dalla sua nascita: il suo quarantatreesimo compleanno, nel 2003, rappresentò l'inizio dell'anno 43 d.D. - después de Diego (dopo Diego). Se alla sua nascita la chiesa contava 200 membri, i fedeli raccolti anche tramite il sito ufficiale raggiunsero gli 80.000, tra cui alcuni giocatori famosi come Michael Owen, Ronaldinho e Juan Román Riquelme[48]. Il 26 dicembre 2003 la sua prima squadra, l'Argentinos Juniors, inaugurando il nuovo stadio costruito nel quartiere di La Paternal a Buenos Aires, decise di dedicarglielo chiamadolo Estadio Diego Armando Maradona: il nome fu ufficializzato il 10 agosto 2004[49]. Inoltre ha un monumento situato nel museo del Boca Juniors, all'interno della Bombonera[50], una statua nella cittadina di Bahía Blanca[51] e numerose altre sculture in diverse parti del mondo.

A Napoli, in una via pubblica, gli fu dedicato addirittura un altarino con una foto nella quale indossa la maglia del Napoli e un suo capello in una teca, dove i tifosi si recavano prima delle partite a chiedere la "grazia calcistica". L'11 maggio 1991 fu celebrato nella città partenopea un convegno in onore di Maradona, intitolato Te Diegum, al quale presero parte molti intellettuali tifosi della squadra azzurra. Il report di questa esperienza (oltre che della sua preparazione) è riportato in un libro omonimo, pubblicato nello stesso anno

AUGURI PER I TUOI 50 ANNI,CAMPIONE





venerdì 29 ottobre 2010


Amorphophallus titanium
Il suo nome indonesiano, «bunga bangkai» significa fiore-cadavere

La formula sarebbe stata copiata dal rito dell'harem di Gheddafi. In realtà è la barzelletta preferita dal premier.

Dopo il Tuca tuca spunta il Bunga bunga. Ma se il primo è un successo musicale tutto italiano, inventato dal caschetto biondo della Carrà, questo Bunga bunga non sembra essere «solo» un ballo sexy oppure un fiore indonesiano ma qualcosa di più. Apparentemente il Bunga bunga è una specialità africana, più probabilmente libica, forse cara a Gheddafi, e quindi d'importazione. Ma in queste ore, dopo la sua apparizione in atti giudiziari della procura di Milano, tutti si chiedono cosa effettivamente sia. E sul web impazza il tormentone.

LA BARZELLETTA.
Vi sono due ministri del governo Prodi che vanno in Africa, su un’isola deserta, e vengono catturati da una tribù di indigeni - rispondeva la biondina di Portici - Il capo tribù interpella il primo ostaggio e gli propone: ‘‘Vuoi morire o Bunga-bunga?’’. Il ministro sceglie: ‘‘Bunga-bunga’’. E viene violentato. Il secondo prigioniero, anche lui messo dinanzi alla scelta, non indugia e risponde: ‘‘Voglio morire!’’. Ma il capo tribù: ‘‘Prima Bunga-bunga e poi morire».

mercoledì 27 ottobre 2010



Omicidio Claps
La firma del killer
tra i capelli di Elisa

Le lesioni da strumento tagliente le ha già trovate. Altre, però, appaiono attribuibili a insetti. «Indagini tricologiche», le definiscono i magistrati della Procura di Salerno. Cristina Cattaneo, 46 anni, capelli cortissimi e grandi occhi azzurri, da qualche mese è immersa nella consulenza che gli è stata assegnata dagli investigatori di Salerno. Quello che le è stato affidato è un quesito complicato. Forse il più complicato della sua carriera. Perché gran parte dell’inchiesta sull’omicidio di Elisa Claps è basato su una ciocca di capelli tagliata di netto. Così come per Heather Barnett in Inghilterra che, però, le ciocche di capelli le stringeva in una mano.

«La firma del delitto», la chiamano Gildo Claps, il fratello di Elisa, e il suo avvocato Giuliana Scarpetta. La dottoressa Cattaneo, medico legale, responsabile del laboratorio di antropologia e odontologia forense dell’Università degli studi di Milano deve stabilire se i capelli prelevati dal cadavere di Elisa nel corso dell’autopsia e durante i sopralluoghi nel sottotetto della chiesa della Trinità di Potenza, che secondo gli investigatori è il luogo del delitto, sono stati tagliati e se sono presenti tracce metalliche. Una volta stabilito questo dovrà anche accertare la natura e la modalità dei tagli.

È per questo motivo che ha chiesto di essere affiancata da un entomologo, un esperto di insetti. Perché, mentre studiava i capelli di Elisa, si è accorta che alcune lesioni forse erano «attribuibili a insetti». E allora ha scritto ai magistrati di Salerno. E ha chiesto «di procedere - si legge nel documento che la Gazzetta ha potuto consultare - ad accertamento entomologico contestualmente a quello sui capelli allo scopo di differenziare le lesioni dovute a strumento tagliente da quelle potenzialmente attribuibili a insetti».

I magistrati Rosa Volpe e Luigi D’Alessio hanno scritto al gip: «Con riferimento alla ulteriore perizia connessa agli accertamenti già demandati alla dottoressa Cattaneo deve osservarsi che le ulteriori indagini scientifiche che il perito richiede, poiché dettate e ispirate dall’esigenza di completezza nell’accertamento della verità, devono essere recepite senz’altro con disposizione delle nuove indagini richieste e nomina di un entomolo go». Il gip Attilio Franco Orio ha subito accolto la richiesta. Scrive: «Le esigenze di ulteriori approfondimenti specialistici segnalati dal perito sono meritevoli di essere soddisfatte». Sarà l’entomologo a stabilire se alcuni tagli sui capelli di Elisa sono attribuibili a insetti. «La firma del delitto», però, la dottoressa Cattaneo l’ha già trovata.

martedì 26 ottobre 2010



Marco Cristi, “lo Scugnizzo napoletano”, al Ridotto di Salerno
di MARIA SERRITIELLO

Un inizio scoppiettante, al “Ridotto” di Salerno, nella nuova sede di Via Pio XI, per la stagione di Cabaret “Che comico 2010-2011”. Nel nuovo teatro, una costola del “Delle Arti”, 73 posti di colore rosso vivace, inaugurato non più di un mese fa, dopo aver abbandonato la storica sede di Via F. Pinto, si è esibito, per due sere, il 23 e 24 ottobre, Marco Cristi con il suo esilarante spettacolo “Cristi si è fermato ad Eboli e sta aspettando il carro attrezzi”. Il divertente monologo, di due ore circa, è un concentrato di battute, dal ritmo incalzante, sciorinato al pubblico, con sicura padronanza, dallo “scugnizzo napoletano”. Un artigiano della risata, Marco Cristi, che fa il suo lavoro con serietà, senza mai risparmiarsi, neanche quando i riflettori e la foga recitativa gli fanno inzuppare la camicia di sudore. La sua comicità nasce dalle strade di Napoli e dai suoi concittadini del Rione Sanità, dove abita. Così nelle sue battute si possono scorgere sfumature popolari e variazioni di voci, che unite alla mimica facciale, rendono il suo spettacolo particolare. Garbatamente sa interagire con il pubblico e sempre con accattivante simpatia riesce a far salire qualcuno in palcoscenico, per improvvisare insieme uno sketch. Due serate al “Ridotto”, ad inizio di stagione, di viscerale comicità, com’è nello stile di Cristi, che il pubblico ha molto apprezzato.

Marco Cristi, classe 1970, è nato a Napoli ed è meglio conosciuto come lo scugnizzo del cabaret napoletano, per aver iniziato la sua carriera come artista di strada. Dal 1994 ad oggi le tappe sono state varie: dai club di cabaret di tutt’Italia al teatro, dalla radio alla televisione. Napoletano DOC i suoi spettacoli sono rappresentati e graditi in tutta la penisola ma anche all’estero. 1142 sono state le repliche dal 2001 al 2004 per lo spettacolo “Chi disse donna disse danno”. Ha preso parte alla fiction “La squadra” e alla soap opera “Un posto al sole”. Un curriculum di tutto rispetto suo che vanta numerosi riconoscimenti e premi, tra cui: primo classificato al Premio Massimo Troisi e secondo posto al Premio Charlot. Nove anni di brillante carriera, senza una battuta d’arresto, o forse no, ad Eboli aspettando il carro attrezzi……

Maria Serritiello
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lunedì 25 ottobre 2010

Benvenuti al Sud



di Maria Serritiello


Benvenuti al Sud

Alberto direttore delle poste di una cittadina della Brianza, aspira, pressato dalla moglie, a trasferirsi a Milano. Il trasferimento non è così semplice, per ottenerlo e scalare la graduatoria, si finge invalido. Smascherato da un severo ispettore, Alberto ottiene, sì, il trasferimento ma al sud, per due anni, a S. Maria di Castellabate, provincia di Salerno, per essere precisi. Con le lacrime agli occhi, l’insegna della Lombardia sotto il braccio, staccata per ricordo, con il suo bel carico di pregiudizi, già emigrante e al suono di “O mia bella Madunina…” percorre in macchina l’autostrada del sole. Un primo ostacolo lo deve affrontare subito, sulla Salerno Reggio Calabria, ma quanti altri ne dovrà superare? Alberto comincia a pensare che i due anni al sud saranno i più brutti della sua vita. Pian piano, però, vinta la diffidenza iniziale, scoprirà un sud diverso da come i pregiudizi lo figurano.

Commento: L’indiscusso successo di botteghino dà ragione ad un film che nulla ha di originale, a cominciare dalla trama, che è un remake della geniale commedia francese “Bienvenue chez le ch’tis”, portata sullo schermo da Dany Boon, incassando tre milioni di euro, per essere stato visto da 20 milioni di francesi e 800.00 italiani, per finire ad una sceneggiatura che nulla ha di divertente, se non qualche bozzetto e ad una fotografia, in sostanza, non eccezionale. Un film basato sui luoghi comuni più scontati, dove i pregiudizi sono l’intreccio originale. Non fa ridere sapere che il nord conosce sommariamente i luoghi geografici: Santa Maria di Castellabate, provincia di Napoli e che il sud è un concentrato caricaturale, quando non è pregiudizio puro. L’ironia della macchietta non si evince, anzi si alimenta il contrario, nonostante il pensiero di Miniero, a cui piace considerare il film come il superamento della diatriba nord–sud. Anche la figura dell’impacciato postino, ovvero Alessandro Siani, vorrebbe sottilmente rifare il verso alla poetica insicurezza di Massimo Troisi. Niente di più blasfemo! Ed infine perché i meridionali sono sempre chiamati, da quelli del nord, a passare l’esame? Perchè solo alla fine, superata la diffidenza, si accorgono che al sud si vive e si mangia bene, che c’è cordialità, accoglienza e senso d’amicizia? Fa ridere tutto ciò? Eppure, molti, moltissimi, stando agli incassi, hanno scelto questa risata grassa. Peccato!

Interpreti

Claudio Bisio, è perfetto nelle vesti del direttore milanese, è se stesso, non compie nessuno sforzo interpretativo, quasi fosse a Zelig, contornato dai comici del programma. Certo è simpatico ed intenerisce, quando ad una ad una deve smontare le sue credenze sul primitivo sud.

Alessandro Siani, che nel film doveva essere la testa di ariete della risata, si riduce a fare da spalla a Bisio e a lanciare solo qualche battuta efficace. Eppure è conosciuto per la sua scoppiettante comicità e per i suoi monologhi a raffica, ma nel film risulta molto sacrificato.

Naturale, bella e brava, Maria, ovvero, Valentina Lodovini, con il suo perfetto accento partenopeo, lei toscana di adozione e al suo primo film leggero.

Anche Angela Finocchiaro caratterizza bene, la petulante moglie milanese, ossessionata dall’ordine, dall’igiene e dal trasferimento a Milano del marito .

Veri cammei, poi, sono le interpretazioni dei consumati attori: Giacomo Rizzo e Nando Paone, un valore aggiunto al film.

Luca Miniero.

Il regista italiano, Luca Miniero, è specializzato in commedie che affrontano i conflitti culturali dell'Italia e rappresenta quel cinema caricaturale che vuole abbattere stereotipi e pregiudizi.(!) Dopo la laurea in Lettere Moderne, si trasferisce a Milano, dove comincia a girare numerose campagne pubblicitarie sia per prodotti industriali che per trasmissioni televisive. Assieme all'amico Paolo Genovesi firma il primo cortometraggio, Piccole cose di valore non quantificabile (1999), poi decide di passare al lungo. Negli anni successivi studia, scrive e dirige Incantesimo napoletano (2002), ponendo l'attenzione sul conflitto sociale tra Italia del nord e del sud, attraverso la figura di una ragazza napoletana innamorata delle tradizioni milanesi.

Spunti di riflessioni

L’intolleranza tra nord e sud è una pura invenzione, stando alle risate collettive, amplificate dal film. Si ride tanto a cinema. … ecco, appunto al cinema!
Curiosità

E’ già pronto, dato il successo di botteghino, il sequel “Benvenuto al Nord”. Pare che non ci salveremo tanto facilmente dai pregiudizi, ma per questa volta dovremo risalire lo stivale!

Frasi del film

"Il forestiero che viene al sud piange due volte, quando arriva e quando parte".

"-Quant’è ?

-L’abbiamo fatto per amicizia

-Non ci conosciamo neanche

-Ci conosceremo"

Giudizio

Sufficiente

Benvenuti al Sud.

Regia:Luca Minieri

Interpreti: Claudio Bisio, Alessandro Siani,Valentina Lodovini, Angela Finocchiaro, Giacomo Rizzo, Nando Paone, Naike Rivelli



Maria Serritiello

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domenica 24 ottobre 2010




A SALERNO SI VIVE BENE

Parliamo, nello specifico, dell'ottimo piazzamento della nostra città nella speciale classifica riguardante l'indagine dell'Ecosistema urbano di Legambiente che monitorizza, di anno in anno, la qualità ambientale dei comuni capoluogo italiani, fotografando di fatto quanto di buono attuato dagli stessi per migliorare la qualità della vita dei cittadini.
Un piazzamento (19° posto rispetto al 34° dello scorso anno) che, oltre a sottolineare quanto sopra già descritto, fa da traino alla rimonta da parte dei comuni meridionali italiani, storicamente sempre poco attenti e propensi ad investimenti atti a migliorare la qualità dell'ambiente e di conseguenza la qualità della vita. Una rimonta capeggiata proprio da Salerno che, con il suo 19° posto, è il primo comune del Sud Italia presente nella speciale classifica

sabato 23 ottobre 2010



Gioacchino Giuseppe Napoleone Murat, 4º principe Murat e 3º principe di Pontecorvo
Bordentown 21 giugno 1834 – Château de Chambly, 23 ottobre 1901
Fu un Maggior generale dell'Esercito francese ed un membro della famiglia Bonaparte-Murat


Gioacchino Giuseppe nacque a Bordentown come figlio maggiore del Principe Napoleone Luciano Carlo Murat 2º Principe di Pontecorvo and 3º Principe Murat il secondogenito di Gioacchino Murat Re di Sovrani di Napoli che sposò Carolina Bonaparte sorella di Napoleone.Sua madre era Caroline Georgina Fraser (1810-1879) figlia di Thomas Fraser. Aveva altri quattro fratelli.

Si trasferì in Francia con la famiglia nel 1848, dopo la caduta di Luigi Filippo, ove il padre era diventato senatore, principe imperiale e ministro.

Nel 1834 sposò al Palazzo delle Tuileries Malcy Louise Caroline Berthier de Wagram (Parigi, 22 giugno 1832 – ivi, 17 maggio 1884), figlia di Napoleone Berthier de Wagram 2º duca di Wagram (1810 – 1887) e di Zénaïde Françoise Clary (1812 – 1884) nipote di Désirée Clary e di Giulia Clary da cui ebbe due figlie femmine ed un maschio il 5º Principe Murat. Dieci anni dopo la morte della prima moglie, il 7 novembre 1894 sposò in seconde nozze Lady Lydia Hervey (Kemptown, 15 agosto 1841 – Château Chambly, 25 settembre 1901) da cui non ebbe figli

Nel 1852 entrò nell'esercito francese di cui divenne ufficiale l'anno successivo e tenente colonnello nel 1863. Nel 1866 divenne colonnello in un reggimento di cavalleria. Nel 1870 fu promosso brigadiere generale e partecipò alla guerra franco-prussiana (19 luglio 1870 – 10 maggio 1871). Dopo la sconfitta francese e la caduta del Secondo Impero francese, si ritirò a vita privata pur potendo mantenere il grado militare acquisito ed il titolo di principe.

I FILMATI SONO RELATIVI A GIOACCHINO MURAT E NON A GIOACCHINO GIUSEPPE DELLA FAMIGLIA MURAT DI CUI SOPRA LA BIOGRAFIA




venerdì 22 ottobre 2010



IL 22 OTTOBRE 1441 A FIRENZE SI SVOLSE IL CERTAME CORONARIO

Il Certame coronario fu una gara di poesia in lingua volgare ideata nel 1441 a Firenze da Leon Battista Alberti, con il patrocinio di Piero de' Medici.

L'intenzione era quella di dimostrare come il volgare avesse piena dignità letteraria e potesse trattare anche gli argomenti più elevati, in un periodo che assisteva, col fiorire dell'Umanesimo, ad una forte ripresa dell'uso del latino. Alla gara, che aveva come premio una corona d'alloro in argento (da ciò il nome), parteciparono sia noti letterati dell'epoca sia rimatori popolari, che dovettero comporre testi sul tema "la vera amicizia". Si svolse il 22 ottobre 1441 nella cattedrale di Santa Maria del Fiore e vi assistette un pubblico numeroso, nonché un gruppo di autorità civili e religiose della città.

Il premio non venne assegnato a nessuno dei poeti dicitori perché le opere non vennero ritenute degne, ma fu consegnato dai dieci segretari apostoloci di Eugenio IV, come si può desumere dal codice Palatino 215 della Biblioteca Nazionale di Firenze, alla chiesa dove si era svolta la gara.

Il fatto che la corona non venisse assegnata ad alcuno dei poeti in gara testimonia come la riabilitazione del volgare non fosse ancora del tutto matura; tuttavia il Certame coronario è indizio di una tendenza ormai in atto e irreversibile. Secondo Parronchi, che riprese una conferenza di Lanyi (1940), nell'occasione potrebbe essere stata donata al mecenate Medici la statua del David di Donatello come ringraziamento.

Nella seconda metà del secolo la ripresa letteraria del volgare avvenne in primo luogo a Firenze: e non c'è da meravigliarsi, poiché a Firenze la letteratura volgare aveva una tradizione illustre e prestigiosa, che poteva vantare veri e propri classici, come Dante, Petrarca e Boccaccio. Proprio a questa tradizione i poeti della cerchia medicea, Lorenzo il Magnifico in testa, si rifanno in cerca di modelli.

Un documento prezioso di questa attenzione alla tradizione volgare è la cosiddetta Raccolta Aragonese, un'antologia dei primi secoli della poesia toscana inviata nel 1476 da Lorenzo de' Medici in dono a Federico d'Aragona. La lettera che funge da prefazione è firmata da Lorenzo, ma è quasi sicuramente di Angelo Poliziano. Oltre che a Firenze, però, il volgare riacquista dignità letteraria a Ferrara con Matteo Maria Boiardo e Pietro Bembo, a Napoli con Jacopo Sannazaro, Masuccio Salernitano e i poeti petrarchisti.

La ripresa del volgare è accompagnata anche dal ritorno a generi letterari consolidati come la lirica amorosa di ascendenza petrarchista, la narrativa cavalleresca di origine romanza, la novella boccacciana

giovedì 21 ottobre 2010


"ARSENICO" CENA CON DELITTO AL CUBE DI SALERNO
di Maria Serritiello

Quella di venerdì 22 ottobre, al Restaurant bar “Cube” di Salerno, sarà una cena particolare. L’invito a gustare manicaretti, nell’accogliente locale di Via Dogana Vecchia n°30, nel cuore della movida salernitana, è invitante ma non rassicurante, perché chi vi si recherà , sa già che gli verrà servita una cena con delitto, condita con arsenico. Il potente veleno, “l’Arsenico”, altro non è che il titolo del il giallo, offerto ai commensali, tra una portata e l’altra, dal Cube e sceneggiato con eccezionale bravura dagli attori Brunella Caputo e Davide Curzio. Già nella passata stagione, Bruna e Davide hanno riscosso tanto successo di pubblico, con la fortunata serie di cene e delitto, da bissare anche quest’anno, per gli appassionati. La “Cena con delitto”, sperimentata dal Restaurant-bar è un’esclusiva del locale di Salerno per tutta la Campania. A riscrivere la sceneggiatura, per adattarla al luogo, è la brava Brunella Caputo, una giallista convinta, tanto da essere ella stessa un personaggio uscito dall’invenzione di Ellery Queen. Gli eccellenti attori sono coadiuvati, nella performance, da Teresa Di Florio e da due pezzi da 90 del jazz salernitano e non solo:Stefano Giuliani (sax) e Aldo Vigorito (contrabbasso). I virtuosi musicisti, della musica più libera, conosciuti ed apprezzati sia nell’ambito salernitano che in quello internazionale, creano con la loro musica l’atmosfera giusta per gustare a pieno la rappresentazione. Non manca la suspense, mista a semplice e coinvolgente convivialità, infatti, il pubblico, ad un certo punto delle indagine, interviene e con gli elementi raccolti saprà individuare esso stesso l'assassino.
Il delitto servito a cena, altro non è che la trasposizione del radio giallo molto in voga negli anni ’40, con durata 20/25 minuti. I gialli, essendo trasmessi per radio, un mezzo di grande fascino per favorire la fantasia, erano accompagnati dalle suggestioni e dai suoni particolari di un rumorista, antico mestiere oggi scomparso, grazie agli effetti speciali creati al PC, ma che per oltre cento anni ha accompagnato la vita della radio.



Venerdì 22 ottobre, alle 21 in punto, la cena si colorirà di giallo, senza che una goccia di sangue si sparga tra i commensali…. ce lo auguriamo!



Maria Serritiello
www.lapilli.eu

mercoledì 20 ottobre 2010




20 OTTOBRE 1917 LA RIVOLUZIONE DI OTTOBRE

Con Rivoluzione d'ottobre si intende la sollevazione rivoluzionaria per opera dei bolscevichi contro il governo provvisorio della Repubblica Russa guidato da Kerenskij.

Dopo il tentativo controrivoluzionario di Kornilov, sventato dall'azione degli operai di Pietrogrado e dalle unità militari della guarnigione della città, i bolscevichi, si convincono che bisogna stringere i tempi per realizzare il passaggio del potere dal governo provvisorio, nato dalle giornate di febbraio ed emanazione della proprietà terriera e della borghesia industriale, ai soviet, rappresentanti le masse operaie e contadine. Nel settembre 1917 la diffusione dei soviet nella Russia è disomogenea e comunque le due componenti, operaia e contadina, rimangono ancora separate. Nei soviet degli operai e soldati (che provengono per la stragrande maggioranza dalle campagne) che si vanno formando nelle città i bolscevichi vedono aumentare costantemente la loro influenza mentre i soviet contadini sono saldamente nelle mani dei socialrivoluzionari

La preparazione

Il 15 settembre 1917 Lenin, ancora nascosto a Helsinki in Finlandia dopo il fallito tentativo rivoluzionario di luglio, scrive al Comitato Centrale del partito affinché venga iniziata la preparazione del passaggio dei poteri ai soviet. Lenin rientra in segreto a Pietrogrado il 10 ottobre e vince le ultime resistenze interne al proprio partito sull'insurrezione. Solo Zinov'ev e Kamenev ritengono azzardata la mossa e consigliano di aspettare l'apertura dell'Assemblea Costituente, apertura che il governo di Kerenskij ha fissato, dopo numerosi rinvii, al 28 novembre. Lenin è convinto che il momento sia propizio non solo per la Russia ma anche per le altre nazioni europee che, sempre secondo il dirigente bolscevico, la guerra sta spingendo in una fase pre-rivoluzionaria. Il 12 ottobre viene creato il Comitato militare rivoluzionario con sede nell'Istituto Smolnyj, che ha il compito di dirigere l'insurrezione; a presiederlo viene chiamato Trotsky. Il Comitato può contare, a Pietrogrado, su circa dodicimila Guardie Rosse, trentamila soldati della guarnigione e sugli equipaggi delle navi della flotta del Baltico. Il governo provvisorio dispone, in città, di settecento allievi ufficiali e di un battaglione femminile

La rivoluzione d'ottobre

L'insurrezione prende il via la sera del 6 novembre (24 ottobre del calendario giuliano in uso al tempo): la sera vengono occupate prima tutte le tipografie; la notte del giorno dopo 7 novembre (25 ottobre) i punti più importanti di Pietrogrado: poste, telegrafi, stazioni ferroviarie, banche, ministeri. Il governo provvisorio praticamente cessa di esistere senza alcuna resistenza. Kerenskij fugge verso il fronte e gli altri ministri si rinchiudono nel Palazzo d'Inverno, che verrà attaccato alle 21.45 e definitivamente conquistato alle 2 del mattino dopo (8 novembre/26 ottobre).

La sera del 7 novembre (25 ottobre del calendario giuliano), si riunisce il Secondo Congresso dei Soviet, ed è a questo organo che i bolscevichi consegnano il potere appena conquistato. Quella notte la discussione prosegue senza sosta ed alle due del mattino dell'8 novembre, mentre si arrendono le ultime sacche di resistenza nel Palazzo d'Inverno, viene decretato il passaggio del potere ai soviet. Come primo atto il congresso rivolge a operai soldati e contadini un proclama in cui afferma che il governo sovietico, in via di creazione, avrebbe offerto ai tedeschi la pace immediata ed avrebbe consegnato la terra ai contadini.

Nei giorni che seguono, mentre la rivoluzione si diffonde e si scontra con i primi tentativi di resistenza, viene organizzato il primo governo sovietico che prende il nome di Soviet dei commissari del popolo, o Sovnarkom. Alla presidenza va Lenin, Trotsky agli Esteri, gli altri incarichi vanno ad altri membri del partito bolscevico, tra cui Stalin al quale viene affidata la commissione per le questioni delle nazionalità. Il 15 novembre (2 novembre del calendario giuliano) il governo sovietico subisce un rimpasto in seguito all'ingresso dei socialrivoluzionari di sinistra, con Kolegaev che diviene commissario del popolo per l'Agricoltura.

Una delle più dettagliate e avvincenti cronache dei giorni della Rivoluzione d'Ottobre è nell'opera I dieci giorni che sconvolsero il mondo, opera del giornalista americano John Reed





martedì 19 ottobre 2010



Re Lear è una tragedia in cinque atti, in versi e prosa, scritta nel 1605-1606 da William Shakespeare

La storia che ne fornisce l'intreccio principale affonda le radici nell'antica mitologia britannica. È un dramma a doppio intreccio (schema presente in molte opere dello stesso autore) nel quale la trama secondaria contribuisce a far risaltare e a commentare i vari momenti dell'azione principale

Lear era un leggendario sovrano della Britannia, benché sia ovvio che la sua vicenda faccia parte del patrimonio folcloristico delle più svariate culture.

Il Lear "storico" sarebbe vissuto poco prima del tempo della fondazione di Roma, ossia nell'VIII secolo a.C.; secondo l'Historia regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, Lear, approssimandosi la vecchiaia, aveva deciso di dividere la Britannia fra le sue tre figlie e i mariti che egli avrebbe loro assegnati, pur mantenendo l'autorità regale.

Quando chiede loro di dichiarare l'affetto che gli portano, Cordelia, la figlia minore, disgustata dalla sfacciata adulazione delle sorelle Gonerilla e Regana, risponde che il suo affetto è quello dovuto da ogni figlia a ogni padre. Lear adirato la disereda, mentre consegna a ciascuna delle sorelle di Cordelia ed ai rispettivi mariti (Duca di Albany e Duca di Cornovaglia), metà del suo regno.

Poco dopo il Re di Francia, e cioè di un terzo della Gallia, avendo notizia della bellezza di Cordelia, la sposa rinunciando alla dote e la porta con sé. Molto tempo dopo i due governatori insorgono contro Lear e lo depongono; egli si reca allora presso la figlia in Gallia, dove viene bene accolto.

Il Re di Francia raduna un esercito e conquista l'intera Britannia, restaurando Lear sul suo trono. Dopo altri tre anni, però, in seguito alla morte sia di Lear che del Re di Francia, Cordelia rimane sola regina di Britannia. Passano altri cinque anni di pacifico governo, allorché il figlio del Duca di Albany ed il figlio del Duca di Cornovaglia si ribellano a Cordelia e dopo una lunga guerra la fanno prigioniera. La regina spodestata si suicida in carcere.

Re Lear è generalmente considerato una delle migliori tragedie di William Shakespeare. Si crede che sia stato scritto nel 1605 ed è basato sulla leggenda di Leir, un re della Britannia prima che questa diventasse parte dell’Impero Romano. La sua storia era già stata narrata in cronache, poemi e sermoni, così come sul palco, quando Shakespeare intraprese il compito di raccontarla di nuovo.

Dopo la restaurazione Inglese, la tragedia fu spesso modificata da professionisti del teatro che non amavano il suo sapore nichilista, ma, dalla seconda guerra mondiale, ha cominciato ad essere considerato uno dei più grandi successi di Shakespeare. Il ruolo di Re Lear è stato recitato da molti grandi attori, ma generalmente è considerato una parte che può essere recitata solo da coloro che hanno raggiunto un'età avanzata.

Trama

Il dramma comincia con la decisione di re Lear di abdicare e dividere il suo regno fra le tre figlie Gonerilla, Regana e Cordelia. Le prime due sono già sposate, mentre Cordelia ha molti pretendenti, in parte perché è la figlia preferita dal padre. In un accesso di vanità senile, il re propone una gara: ogni figlia riceverà dei territori in proporzione all'amore verso il padre che saprà dimostrare con le sue parole. Ma il piano fallisce. Cordelia si rifiuta di gareggiare con l'adulazione delle sorelle maggiori, poiché è convinta che i suoi veri sentimenti sarebbero immiseriti dall'adulazione rivolta al proprio vantaggio. Lear, per ripicca, divide la sua quota del regno che le spetterebbe fra Gonerilla e Regana, e mette al bando Cordelia. Tuttavia il re di Francia la sposa, benché diseredata, poiché apprezza la sua sincerità, o forse perché vuole un casus belli per una successiva invasione dell'Inghilterra.

Poco dopo aver abdicato, Lear scopre che i sentimenti di Gonerilla e Regana verso di lui si sono raffreddati; ne nascono discussioni. Il conte di Kent, che ha preso le difese di Cordelia ed è stato messo al bando, ritorna travestito da Caio, un servo, che "non vuole mangiare pesce" (ossia è un protestante), per proteggere il re al quale resta fedele. Nel frattempo, Gonerilla e Regana litigano a causa della loro attrazione per Edmund, figlio illegittimo del conte di Gloucester, e sono costrette ad affrontare un esercito francese, guidato da Cordelia, mandato a ricollocare sul trono Lear. Si combatte una guerra devastante.

La trama secondaria coinvolge il conte di Gloucester e i suoi due figli, Edgar e Edmund. Edmund inventa racconti calunniosi sul fratellastro legittimo; Edgar è costretto all'esilio e a fingersi pazzo. Edmund corteggia Gonerilla e Regana. Il conte di Gloucester è affrontato dal duca di Cornovaglia, marito di Regana, ma è salvato da alcuni servi di quest'ultimo che accusano il duca di aver trattato ingiustamente Lear. Il duca, ferito da un servo (che viene ucciso da Regana), abbandona Gloucester nella tempesta dopo averlo accecato, perché "fiuti la strada per Dover". Poco dopo il duca di Cornovaglia muore per la ferita riportata. Nella scena della tempesta Lear esclama che è "più un uomo contro il quale si pecca che un peccatore".

Edgar, ancora travestito da pazzo vagabondo, scopre Gloucester abbandonato nella tempesta. Il conte gli chiede la strada per Dover, e Edgar risponde che lo guiderà lui. Gloucester non riconosce la voce del figlio, che è turbato dall'incontro col padre cieco.

A Dover, Lear si aggira farneticando e parlando ai topi. Gloucester tenta di uccidersi gettandosi da una roccia, ma il figlio Edgar, con l'inganno, lo salva; poco dopo incontra il re. Lear e Cordelia si incontrano e rappacificano poco prima della battaglia tra Britannia e Francia. Dopo la sconfitta dei francesi, Lear pensa con gioia alla prospettiva di vivere in prigione insieme a Cordelia, ma Edmund ordina che essi siano condannati a morte.

Edgar, travestito, si scontra con Edmund e lo ferisce a morte. A questa vista, Gonerilla, che per gelosia ha già avvelenato Regana, si uccide. Edgar rivela a Edmund la propria identità e lo informa che Gloucester è appena deceduto. Nell'apprendere questo, e le morti di Gonerilla e Regana, Edmund riferisce a Edgar di aver disposto l'uccisione di Lear e Cordelia, e dà ordine che l'esecuzione sia sospesa - forse il suo unico gesto di bontà in tutto il dramma.

Disgraziatamente, la sospensione arriva troppo tardi. Lear appare sulla scena portando fra le braccia il cadavere di Cordelia, dopo aver ucciso il servo che l'ha impiccata, poi muore anch'egli di dolore.

Oltre alla trama secondaria che riguarda il conte di Gloucester e i suoi figli, la principale innovazione introdotta da Shakespeare nella vicenda è la morte di Cordelia e di Lear nel finale.

Nei secoli XVIII e XIX, questa conclusione tragica ricevette molte critiche, e furono scritte e rappresentate versioni alternative, in cui i personaggi principali si salvavano dalla morte e Cordelia sposava Edgar.

Curiosità

Alla fine della canzone dei Beatles I Am the Walrus è possibile udire un pezzo della riduzione radiofonica dell'opera trasmessa dalla BBC. La frase di Lear "Seppellite il mio corpo" (Atto IV scena VI) venne interpretata dai fans come prova del fatto che Paul McCartney fosse morto.

Bedlam è una parola inglese usata da Shakespeare nella tragedia Re Lear. Tale parola è una alterazione di Bethlehem cioè Betlemme che era il nome del manicomio di Londra ai tempi di Shakespeare. Il personaggio di Edgar assumendo il nome di Tom o' Bedlam esplicita quindi il suo stato di mendicante pazzo.

L'opera di Re Lear,in seguito, fu modificata e introdotta anche nel gioco di ruolo: Final Fantasy IX





ECCOLO IL RE LEAR, UNO STUPENDO GIORGIO ALBERTAZZI


Via delle Tofane e altre cronache di Paolo D’Amato

di Maria Serritiello

Via delle Tofane e altre cronache è il secondo libro di Paolo D’Amato, titolo tratto da uno dei racconti inserito al suo interno: Via delle Tofane, appunto, una vecchia via di Palermo. Le narrazioni, dieci in tutto, affrontano argomenti di verosimile cronaca, squarci di vita e possibili scenari del quotidiano, che puntano soprattutto al “noir”. Quasi tutte le storie sono intrecciate da internet, il nuovo mezzo di comunicazione, che fa conoscere, interagire ed incontrare molti dei personaggi delle storie raccontate. In esse, Paolo D’Amato, ingabbia certi soprusi e certe violenze di ordinaria quotidianità, che hanno un risvolto tragico, una spada giustiziera che quasi sempre si abbatte per punire e purificare. Così alla base dei racconti, di volta in volta, si trovano corruzioni facili, situazioni di degrado, uomini e donne presi dallo sconforto o da reazioni esagerate e finanche situazioni paradossali, dovute al lento iter dei processi o alla giustizia che arriva in ritardo per gli innocenti . A volte la narrazione si fa triste, perché il racconto affronta la solitudine della vecchiaia, accompagnata dal cinismo dei parenti, che si ostinano a volerla trascurare. Ecco, le storie parlano di noi, della nostra epoca, dei tempi difficili, estesi sempre più verso il male che non al bene, tempi ormai rivolti con troppa disinvoltura alle facili uccisioni, per via di una concezione che nega valore alla vita. Paolo D’Amato, barba e pizzetto, classe 1965, sorriso accattivante, con questo libro, di diritto s’inserisce nel classico genere “noir” ma con una particolarità aggiunta: le violenze e le uccisioni dei suoi racconti, nascono sempre da un movente psicologico. Dieci bozzetti di cronaca nera che potrebbero essere, disinvoltamente, utilizzati per comporre film ad episodi, le parti, infatti, ci sono tutte, finanche il colpo finale non prevedibile. Nei racconti di D’Amato si nota una certa somiglianza con gli arguti telefilm degli anni ’60, confezionati dal maestro del brivido Alfred Hitchcock, che capovolgevano alla fine tutto l’impianto del racconto. Lo stile usato dallo scrittore è chiaro, preciso, sia nel dettaglio, che nella descrizione in generale, ogni parola utilizzata è pensata e mai impiegata a caso Un linguaggio comprensibile, il suo, che non lascia dubbi all’interpretazione e nel far procedere il racconto, D’Amato si serve del mezzo narrativo che è l’attesa e cioè di quell’avanzare prudente che inocula nel lettore la curiosità di conoscere la conclusione della storia. Due dei dieci pezzi, tra cui il primo: “Non c’è tempo”, poetico, sentimentale, dove l’autore riversa tutta la sua sensibilità, il suo cuore e l’ultimo, “Non puoi”, si discostano dal noir persistente ma nei restanti otto, il racconto riprende il genere trucido, a montare rabbia, fino ad arrivare al pezzo “ Ospedale degli Aragona”dove si scatena l’orgia della violenza. Tutti i racconti, forti nell’impianto, hanno un tratto in comune: il fatto scatenante e la risoluzione cruente al fatto, mentre si distacca del tutto da questo schema “Cronache del Settantacinque”, ovvero gli anni di piombo, descritti in modo impersonale dall’autore, che nel racconto, non fa trasparire le sue esperienze pregresse ma dice solamente



“……Non so chi abbia vinto: forse solo chi non ha combattuto. Non so chi abbia perso: forse solo chi è morto. Sicuramente, tra i perdenti, ci sono i familiari dei caduti, innocenti e colpevoli nello stesso tempo, vittime e carnefici.”



Di se stesso e della sua scrittura, infine, dichiara “invento fatti e li descrivo come se fossero veri e narro cose reali come se fossero inventate.”



Paolo D’Amato è nato a Salerno nel 1965 dove vive e lavora nell’ufficio legale di una banca. E’ sposato e ha una figlia di 13 anni. Ha esordito con il romanzo breve “Tempo”un noir ambientato in parte negli Anni di Piombo. Primo posto, per la narrativa e premio della Giuria al concorso “Tammorra d’Argento” e semifinalista al Premio Editoria Indipendente di Qualità. Via delle Tofane è edito da Cicorivolta.



Il libro è stato presentato al pubblico il 5 ottobre scorso, presso la libreria Feltrinelli di Salerno. Sono intervenuti: il Dirigente scolastico Prof. re Nicola Scarsi e il giornalista del Mattino Antonio Manzo.

Maria Serritiello
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lunedì 18 ottobre 2010



IL 18 OTTOBRE 1810 VENNE FONDATA LA SCUOLA NORMALE DI PISA

La Scuola normale superiore di Pisa è un centro di formazione e di ricerca pubblico, corrispondente italiano dell'École Normale Supérieure di Parigi e modello per le altre scuole superiori universitarie. È una delle tre scuole superiori riconosciute e dotate di autonomia

La Scuola normale superiore nacque ufficialmente, per decreto napoleonico, il 18 ottobre 1810, come succursale dell'École Normale Supérieure di Parigi per i paesi in cui era autorizzato l'uso della lingua italiana, ma solo nel 1813 cominciò veramente la sua attività, volta soprattutto alla formazione degli insegnanti di scuola media superiore.


Il primo regolamento della scuolaCollocata presso il convento di San Silvestro di Pisa, ebbe un "Regolamento di disciplina" che ricalcava quello della scuola francese di riferimento, indicando con precisione ammissioni, occupazioni, castighi, ricompense e persino il vestiario degli studenti
L'abdicazione di Napoleone e la restaurazione granducale dei Lorena portò alla chiusura della nuova scuola dopo un solo anno.

Nel 1846 la Scuola normale superiore fu rifondata per volontà del granduca Leopoldo II di Lorena, con la funzione di “semenzaio dei professori e dei maestri delle scuole secondarie del granducato”. Nella denominazione originaria di “Scuola normale”, l'aggettivo si riferiva a quella che era la sua funzione didattica primaria, di trasmettere "norme"[2]: l'appellativo di "superiore" era quindi legato alla preparazione per l'insegnamento secondario.

L'istituto, ospitato dall'Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano e inaugurato il 15 novembre 1847, conservava ben poco dell'ordinamento d'epoca napoleonica, presentandosi più come un'appendice assistenziale dell'Università pisana.

Nel 1862 la Scuola assunse carattere nazionale e prese il nome di "Scuola normale del Regno d'Italia". Con la fondazione delle due riviste (Annali della classe di scienze nel 1871 e Annali della classe di lettere e filosofia nel 1873) ebbe inizio l'attività editoriale della Scuola. Con lo sviluppo del corso di perfezionamento la Scuola andò sempre più assumendo, accanto alla funzione di collegio universitario, quello di istituto superiore di formazione scientifica e di ricerca. Questo carattere venne acquisito ufficialmente, insieme con l'autonomia amministrativa, nel 1932, soprattutto grazie all'azione di Giovanni Gentile.

Nel periodo fascista la Scuola normale proseguì la propria attività didattica e di ricerca.

Alla funzione della scuola di preparare all'insegnamento secondario, si è progressivamente affiancata quella di formare i futuri ricercatori e docenti universitari. Nel 1959 è stata istituita una sezione femminile nell'allora ricostruito Collegio Timpano per consentire anche alle donne di vivere presso la scuola.

Personaggi illustri
Numerosi ex-allievi hanno insegnato ed insegnano nelle università italiane e straniere:

storici come Gioacchino Volpe e Delio Cantimori
filologi e italianisti come Luigi Russo e Napoleone Caix
matematici quali Vito Volterra, Mauro Picone, Aldo Andreotti
Tra gli ex-allievi si annoverano tre premi Nobel: i fisici Enrico Fermi e Carlo Rubbia e il poeta Giosuè Carducci.

Ex-allievi sono stati e sono presenti anche in altri settori della vita nazionale come parlamentari e politici (Giovanni Gentile, Giovanni Gronchi, Carlo Azeglio Ciampi, Marino Raicich, Alessandro Natta, Aldo Capitini, Massimo D'Alema, Fabio Mussi), scrittori e dirigenti editoriali come Giulio Bollati, Pietro Citati, Ettore Cozzani, Antonio Tabucchi e Adriano Sofri,Tiziano Terzani.

Dal 1999 la Scuola è diretta dal Salvatore Settis, anch'egli normalista, il cui mandato terminerà il 31 ottobre 2010. Da novembre 2010 il direttore sarà Fabio Beltram.


La Scuola normale fornisce ai suoi allievi vitto, alloggio, il rimborso delle tasse universitarie e un modesto contributo economico mensile per l'acquisto di materiali didattici. Agli studenti è inoltre garantita una serie di servizi gratuiti o comunque agevolati (fotocopie, accesso alla biblioteca, accesso ad Internet dai collegi, convenzioni con enti sportivi, ecc.) ed essi dispongono di un fondo comune autogestito che possono utilizzare per promuovere attività ricreative o culturali in un regime di relativa autonomia.

I normalisti sono a tutti gli effetti studenti dell'università degli studi di Pisa, regolarmente iscritti, e sono tenuti ad espletare tutti gli obblighi didattici che essa impone. La Scuola normale richiede in aggiunta il superamento di un colloquio annuale di idoneità, la frequenza di due corsi complementari all'anno, il mantenimento della media del 27 e del minimo del 24. Il mancato adempimento comporta la non riconferma del posto per l'anno successivo.






sabato 16 ottobre 2010



DOPO I RECENTI FATTI ALLO STADIO DI MARASSI(GENOVA)PER LA PARTITA ITALIA SERBIA, VALIDA PER LA QUALIFICAZIONE DEL CAMPIONATO EUROPEO,PREPOTENTE MI E' BALZATA LA FIGURA DI GIGI RIVA. UN MITO PER LA MIA GENERAZIONE ....BELLO COME UNA STATUA GRECA E BRAVOOOOOOOOOOOO, IL CAMPIONE IN ASSOLUTO.

IN QUESTO POST UN RIPASSO UTILE, PER LE DISTRATTE GENERAZIONI NUOVE......


« A Gigi Riva il piede destro serve solo a salire sul tram. »
( M. Scopigno)

Luigi Riva - detto Gigi - (Leggiuno, 7 novembre 1944) è un dirigente sportivo ed ex calciatore italiano, campione italiano nel 1970, campione europeo nel 1968 e vice-campione mondiale nel 1970 con la Nazionale italiana di cui detiene il record di marcature con 35 gol. Occupa la 74ª posizione nella speciale classifica dei migliori calciatori del XX secolo pubblicata dalla rivista World Soccer

Iniziò a giocare nel Laveno Mombello F.C. nei campionati 1960-1961 (30 reti) e 1961-1962 (33 reti), per poi passare al Legnano in Serie C (esordio il 21 ottobre 1962 Legnano-Ivrea 3-0).

Esordì in Serie A con il Cagliari, il 13 settembre 1964, nell'incontro Roma-Cagliari (2-1) e indossò la maglia rossoblù fino al termine della carriera, avvenuto nel maggio 1976 a seguito di un infortunio. Con il Cagliari vinse lo scudetto 1969-1970 e conquistò per tre volte il titolo di capocannoniere.

Nel 1969 arrivò secondo nella classifica del Pallone d'oro alle spalle di Gianni Rivera per 4 punti e nel 1970 terzo dietro Gerd Müller e Bobby Moore che lo precedettero rispettivamente di 12 e 4 punti.

Nazionale
Italia campione d'Europa 1968: Riva è il terzo da sinistra in piediL'esordio in Nazionale avvenne il 27 giugno 1965, a 20 anni, in occasione dell'amichevole Ungheria-Italia (2-1) disputata a Budapest. All'ottavo minuto del primo tempo sostituisce Pascutti, infortunatosi. Realizzò il suo primo gol con la maglia azzurra alla sua quarta partita in Nazionale, a Cosenza nel corso dell'incontro Italia-Cipro (5-0).

Il suo periodo migliore con la maglia della Nazionale fu il quadriennio 1967-1970, in cui segnò 22 gol in 21 partite e stabilì un record segnando in sei presenze consecutive (3 a Cipro, 2 alla Svizzera, poi un altro agli elvetici, uno alla Jugoslavia, uno al Galles e 2 al Messico). Divenne campione d'Europa nel 1968, torneo in cui giocò solo la finale di ripetizione (la prima partita era finita 1-1 dopo i supplementari), segnando il gol del vantaggio azzurro dopo solo 12 minuti di gioco (la partita terminò 2-0). Si presentò al Mondiale 1970 con lo score di 19 gol in 16 partite in nazionale, e non segnò neanche un gol nelle tre gare del primo turno. Si riprese segnando due gol nei quarti di finale ed uno nella leggendaria semifinale e non andò a segno in finale.

Nel 1973 diventò il miglior marcatore della storia della Nazionale a quota 35 gol. Il 31 marzo segnò una quadrupletta al Lussemburgo, il 9 giugno eguagliò le 33 reti di Giuseppe Meazza per poi superarle il 29 settembre a Milano durante Italia-Svezia (2-0) ed incrementare il record il 20 ottobre con un'altra marcatura. Qualora le sue 35 reti totali non venissero superate entro il 21 gennaio 2012, per quella data Riva avrà superato Meazza anche nel record di permanenza solitaria da bomber azzurro (38 anni, 3 mesi, 23 giorni).

Venne convocato per il Mondiale 1974, dove disputò la sua ultima partita in azzurro, Italia-Argentina (1-1) il 19 giugno 1974.

Dirigente sportivo

Nella stagione 1986-1987 divenne presidente del Cagliari ma lasciò la presidenza, nello stesso 1987, a Lucio Correddu.

Nel 1990 inizia la sua attività con la FIGC al seguito della Nazionale, prima come dirigente accompagnatore e infine come team manager, carica che ricoprirà con un contratto valido fino al luglio 2014.

Il 9 febbraio 2005, presso l'aula consiliare del Comune di Cagliari, il Sindaco Emilio Floris gli concesse la cittadinanza onoraria. La sera, prima della partita dell'Italia con la Russia la società Cagliari Calcio ritirò la maglia numero 11 consegnatagli da Rocco Sabato, l'ultimo giocatore del Cagliari ad indossarla, con una cerimonia alla quale parteciparono molti giocatori che con lui avevano conquistato lo scudetto con il Cagliari nel 1970. In suo onore fu aperta una scuola calcio a Cagliari che porta il suo nome.

Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana

— 12 luglio 2000. Di iniziativa del Presidente della Repubblica.
Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana

— 30 settembre 1991. Di iniziativa del Presidente della Repubblica











QUESTO E' IL CALCIO CHE CI PIACE
EVVIVA GIGI, "ROMBO DI TUONO", CHE L'HA ONORATO

venerdì 15 ottobre 2010



Il Mistero Della Vita. Una favola scientifica di Franco Garrasi
di Maria Serritiello
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“Il Mistero Della Vita” di Franco Garrasi è un libro sapiente che invita il lettore a riflettere sul ciclo della vita e sull’eredità biologica di essa. Un libro facile solo in apparenza, sebbene lo scrittore s’impegni a renderlo tale, per catturare il lettore incollandolo fino alla fine alle sue pagine scritte. Ci riesce adottando vari strumenti comunicativi, come le incursioni storiche, quelle filosofiche, la cronaca giornalistica, le percentuali, i paradossi filosofici. Un trait d’union tra la cultura umanistica e quella scientifica e le interruzioni, usate ad arte, laddove le nozioni si facevano difficili, sono state, da lui inserite, per spezzare la complessità dell’argomento trattato.

Un eccellente comunicatore, sì nella vita che da scrittore, Franco Garrasi! Ed anche le domande che l’autore fa a se stesso, al posto del lettore, sono un artifizio per ritornare sui concetti scientifici espressi. Tutto il libro è costruito come un dialogo galileano tra due persone, l’uno sapiente che trasmette concetti e l’altro, la spalla che deve informarsi. La favola, perché di favola scientifica si tratta, ha un inizio accattivante, quasi a voler fugare i dubbi dalle difficoltà successive, una narrazione che parte da due riflessioni e cioè la prima che la genetica tende a seguire un cammino scientifico- progressista mentre l’opinione comune della stessa, ne fa una questione di etica e di morale, la seconda riflessione è che il nostro pensiero corrente ci fa sempre fare una netta distinzione tra il seme e la pianta o tra l’uovo e la gallina. L’autore, poi, si addentra nel pensiero scientifico e prosegue con la spiegazione di concetti di biomedicina e precisamente di cellule staminali, di DNA e di evoluzione, in ordine di apparizione. Il desiderio inconfessato dell’autore è di fare di questo libro, un manuale scientifico di divulgazione, un libro, per mezzo del quale tutti siano messi in grado di comprendere e di imparare. A conferma di ciò, nelle ultime pagine del suo scritto, inserisce una scheda informativa sul DNA, una preoccupazione postuma per il povero lettore a digiuno. Così si apprende, tra l’altro ed in conclusione che il DNA è stato scoperto da James Watson e Francis Crick, i quali fecero conoscere alla comunità scientifica mondiale la doppia elica del DNA, attraverso un articolo pubblicato su “Nature”, il 25 aprile del 1953, ma si dovette attendere fino al 1962 perché gli illustri scienziati fossero insigniti del premio Nobel per la fisiologia. Il resto del libro va letto, assimilato e studiato come testo illuminante su tanti concetti, contenuti in esso e che conosciamo solo in modo empirico, per esempio come tramandiamo il nostro patrimonio genetico, quando impariamo, per quanto tempo e da chi, oppure la casualità degli avvenimenti (favorevoli o sfavorevoli), la stabilizzazione della vita. Insomma, un libro erudito quello di Franco Garrasi che ha il pregio di contenere al suo interno complesse informazioni, espresse con un linguaggio semplice e scorrevole, il linguaggio del buon maestro, quello che ha reso più comprensibile la genetica e le cellule staminali, dopo la colta lettura del “Mistero della vita”. Così grazie alla passione divulgativa di Franco Garrasi e alla sua favola scientifica, il DNA e tutto ciò che gli consegue ci è divenuto più familiare.



Franco Garrasi nasce a Modena e trascorre la sua gioventù fra Trieste,Bolzano e Torino dove si laurea in chimica,indirizzo organico biologico. Innamorato degli sconfinati orizzonti del mare, si trasferisce, poi, a Salerno. Ha svolto la sua principale attività presso un’importante industria farmaceutica svizzera. Divulgatore e conferenziere, da alcuni anni è docente di comunicazione in ambito biomedico.



“Il Mistero Della Vita”, edito dalla Mursia, già presentato dall’autore, presso la libreria Feltrinelli di Salerno, il giorno 14 ottobre è stato riproposto nel raffinato spazio-Laboratorio di Lucy Spinillo in via G. Esposito, alle spalle di Largo Campo, nel centro storico di Salerno. A introdurre il testo e l’autore: Maria Serritiello, Luca Concilio, Luisa D’Andria e Gerardo Malangone.



Maria Serritiello

giovedì 14 ottobre 2010




Ivan Bogdanov, ecco chi è il capo degli ultras serbi
Ha 29 anni, è disoccupato, ha precedenti con la giustizia e guida il gruppo estremista dei tifosi del club belgradese Stella Rossa. Un impegno in bilico tra lo sport e la politica, come molti tifosi serbi





ARKAN

Željko Ražnatović - (cirillico: Жељко Ражнатовић)- meglio conosciuto come Arkan (Аркан) (Brežice, 17 aprile 1952 – Belgrado, 15 gennaio 2000) è stato un militare serbo, leader paramilitare, autore di numerosi crimini di guerra commessi durante la Guerra in Jugoslavia negli anni novanta. Fu uno dei maggiori ricercati dall'Interpol negli anni '80-'90 per crimini e omicidi commessi in numerosi paesi europei. Successivamente fu incriminato dall'ONU per crimini contro l'umanità, includendo ruoli principali in genocidi e atti di pulizia etnica.


Quarto figlio di Veljko, colonnello dell'Armata Popolare Jugoslava e di Slavka[1], Zeljko Raznatovic nasce a Brezica, in Slovenia ove il padre era di stanza. Cresce con le tre sorelle maggiori tra Brezica, Zagabria ed infine Belgrado. A nove anni fugge di casa per la prima volta; a meno di diciotto viene arrestato per la rapina in un bar di Zagabria e conosce il primo di una lunga serie di penitenziari

Esistono diverse versioni sull'origine[1] del soprannome Arkan: una prima versione deriva dal nome presente su un falso passaporto turco usato da Arkan. Secondo Marko Lopušina, nel suo libro Commander Arkan, Raznatovic assunse questo nome quando aveva circa vent'anni riprendendolo da una tigre di uno dei suoi fumetti preferiti. L'ultima versione nasce invece dal latino arcanus.

Negli anni Settanta si aggira per l'Europa, svolgendo attività spionistica per conto dell'UDBA, la polizia segreta jugoslava, anche compiendo missioni contro emigrati poco graditi al partito. In cambio i servizi gli offrono protezione, armi e documenti falsi, tutti mezzi che Arkan sfrutta per la sua carriera di insaziabile rapinatore che si apre il 1º febbraio 1974 con una rapina in un ristorante milanese, e poi una lunga serie di rapine a mano armata in Svezia, Belgio e Paesi Bassi. Sconta una pena di 4 anni in Belgio, ma riesce a fuggire dal carcere di Bejlmer (Amsterdam) durante un’altra pena carceraria di 7 anni.

Durante una rapina a una banca di Stoccolma viene arrestato il suo complice Carlo Fabiani, che oggi si fa chiamare Giovanni Di Stefano[2] ed era uno dei più stretti collaboratori di Arkan. Parlava molte lingue, tra le quali un ottimo italiano, praticato anche nel carcere milanese di San Vittore, dove era stato rinchiuso perché accusato di una serie di rapine negli anni Settanta, e nel quale era stato anche uno dei protagonisti di una rivolta.

Negli anni Ottanta, dopo numerose evasioni, condanne per venticinque anni e un bottino non indifferente, fa ritorno a Belgrado dove diventa capo della sicurezza della discoteca “Amadeus” e capo degli ultras della Stella Rossa Belgrado. Nel frattempo uccide il direttore dell’Azienda Elettrica INA. A fine novembre 1990 è arrestato a Dvor/Una dalla polizia croata per traffico d’armi. Viene rilasciato nel marzo del 1991.

Proprio sugli spalti del Marakana si forma l'Arkan nazionalista: unisce le diverse fazioni in cui sono divisi gli ultrà in nome di Slobodan Milosevic e in dono dalla dirigenza della squadra riceve una pasticceria, che diviene il "covo" dei suoi uomini. Quando inizia la guerra con la Croazia, i vertici jugoslavi pensano a lui per organizzare le milizie di volontari. Volontari che Raznatovic non fatica a reclutare, attingendo tra i tifosi del Marakana e nelle carceri belgradesi, imbottite di criminali comuni in cerca di avventura.

A partire da quell'anno Arkan gestisce il Centro per la Formazione Militare del Ministero per gli Affari Interni serbo. Arkan recluta tra i seguaci del F.C. Stella Rossa Belgrado un'unità di volontari forte di circa 3000 uomini con il nome ufficiale di Guardia Volontaria Serba successivamente modificato in Tigri, che a partire dall’autunno 1991 ha operato come unità paramilitare lungo la frontiera serbo-croata. Si dice che il nome Tigri sia stato voluto da Arkan quando questi entrò in possesso di un piccolo tigrotto che sosteneva aver rubato dallo zoo di Zagabria anche se più probabilmente proveniva dallo zoo di Belgrado.[1].

La lista dei crimini commessi dall’unità "Tigre" è, anche riassumendola, spaventosamente lunga: l’unità “Tigre” era solita attaccare con l’artiglieria un paese, di norma musulmano o croato, quindi vi entrava installandovi il terrore, uccidendo arbitrariamente civili, commettendo stupri, saccheggiando e distruggendo proprietà private e monumenti, installando campi di concentramento. Secondo un documento interno dell’esercito Popolare Jugoslavo, il motivo principale per la lotta di Arkan non era tanto la lotta al nemico, quanto l’appropriazione di proprietà private e la tortura dei cittadini

Tigri di Arkan
Il 4 aprile 1992 l’unità “Tigre” uccise 17 persone a Bijeljina, lanciando dapprima una bomba nel Caffè Istanbul e poi un’altra nel negozio del macellaio del paese. Nei giorni seguenti le “Tigri” furono responsabili di 400 omicidi. Immediatamente dopo il bagno di sangue, l’attuale presidentessa della zona controllata dalla Serbia Biljana Plavsic si recò a Bijeljina per baciare Arkan davanti alle telecamere. L’unità paramilitare di Arkan operava allora nel quadro della 6ª Brigata del Corpo d’Armata (JNA).

Il 2 maggio 1992 a Brcko le truppe di Arkan uccidono 600 persone[3] [4] negli insediamenti bosniaco-musulmani di Kolobara, Mujkici e Merajele. Gli uomini di Arkan mettono in piedi il campo di concentramento “Luka-Brcko” per Bosniaci musulmani e Croati. Il direttore del campo di concentramento è un uomo di Arkan. Davanti alla moschea di Glogova vengono uccisi 40 uomini.

Il 24 maggio 1992 le "Tigri" di Arkan massacrarono a Prijedor e nei vicini paesi Hambarine, Kozarac, Tokovi, Rakovcani, Cele e Rizvanovici più di 20.000 persone[5]. Il 20 giugno 1992 eseguirono una pulizia etnica a Sanski Most, massacrando nel vicino paese di Krasulja 700 persone (la fossa comune fu aperta nel 1997) e altre 180 persone, in primo luogo donne e bambini (anche questa fossa comune è stata scoperta nel 1997)[6].

Tra il febbraio ed il marzo del 1993 Arkan e le sue truppe parteciparono al massacro di Cerska, in cui morirono 700 persone[7]. A Visegrad le truppe di Arkan parteciparono ai crimini contro i musulmani. Nella città che forní al premio Nobel Ivo Andric lo sfondo per il suo romanzo Il ponte sulla Drina, centinaia di musulmani furono uccisi, buttati dal ponte Drina o, come accadde ad una settantina di uomini, bruciati vivi[8].

L’11 giugno 1995 e nei giorni seguenti Arkan e le sue truppe aiutarono Ratko Mladic ad eseguire le esecuzioni di massa a Srebrenica[9]. Nel 1996 Arkan partecipò con il partito dell’Unità Serba, da lui fondato, alle elezioni in Bosnia, ottenendo un finanziamento di 225.000 dollari dall’OSCE.

La fortuna di Arkan viene principalmente dalla guerra: gli innumerevoli saccheggi, il contrabbando di armi, benzina, sigarette e il traffico della macchine rubate. In particolar modo, Arkan si è arricchito grazie al saccheggio sistematico delle case di amici e parenti di lavoratori emigrati ed ex-emigrati, dove trovava i risparmi inviati alla famiglia, la quale, non fidandosi del sistema bancario dell’ex Jugoslavia comunista e per paura dell’inflazione galoppante, nascondeva la valuta in casa.

Arkan aveva uno stile di vita lussuoso che amava ostentare nella sua vita belgradese; si occupò anche di calcio e nel 1998 la squadra di cui era presidente, il FK Obilic di Belgrado, partecipò alla Champions League. Dopo vari attacchi subiti da Arkan sulla stampa italiana, passa la presidenza della squadra a sua moglie, la cantante folk Svetlana Ceca (di 21 anni più giovane di lui), mantenendone però la proprietà. Secondo il giornalista Alberto Nerazzini (Diario, edizione del 20-26.05.1998) il manager delle partite del FK Obilic è Carlo Fabiani, ora Di Stefano, ex complice di Arkan nelle rapine in Svezia. Di Stefano gestisce anche l’ufficio italiano di Zeljko Raznjatovic.

I famosi calciatori Dejan Savićević e Siniša Mihajlović di certo ricorderanno quella giornata del dicembre 1991 quando, reduci dalla vittoria nella Coppa Intercontinentale a Tokyo, ad accogliere i giocatori della Stella Rossa, la loro squadra di allora, all'aeroporto di Belgrado trovano l' "amico" Raznatovic. E da qualche parte, forse, conserveranno ancora il curioso dono, una zolla di terra della Slavonia a testa, ricevuto dalle mani di Arkan con la promessa di liberarla tutta.

Le "Tigri" rimasero in attività fino all'ultimo giorno di guerra in Bosnia, distinguendosi per le efferatezze gratuite e coordinando le ondate di pulizia etnica a Banja Luka, Sanski Most e Prijedor.

LA MORTE

Arkan venne assassinato alle 17:05 del 15 gennaio del 2000: la "Tigre" si trovava all' Intercontinental Hotel di Belgrado, dove era seduto e chiacchierava con due suoi amici; Dobrosav Gavrić, un poliziotto 23enne in congedo, si avvicinò a lui con fare calmo e da dietro lo colpì facendo esplodere numerosi proiettili dalla sua CZ-99
Caduto in coma, fu trasportato in ospedale dall'amico Zvonko Mateović ma perì durante il tragitto. La furia del suo sicario fu talmente energica che anche due collaboratori di Arkan, Milenko Mandić e Dragan Garić, rimasero uccisi. Si salvò invece Zvonko Mateović, guardia del corpo di Arkan, che anzì colpì Gavrić ferendolo irrimediabilmente alla spina dorsale.

Quando si diffuse la notizia della sua morte, alcuni dei suoi uomini diedero vita a numerose spedizioni punitive contro presunti complici del suo assassinio. Durante il suo funerale, a cui assistettero circa 20.000 persone, i membri della sua milizia gli tributarono onori militari. La cerimonia fu eseguita secondo il rituale della sua Chiesa ortodossa serba e la salma sepolta nel cimitero Novo Groblje (Cimitero Nuovo) a Belgrado[10]. Fece molta polemica, in Italia, l'esposizione dello striscione "onore alla tigre Arkan" da parte di alcuni gruppi di estrema destra della Curva Nord della Lazio. Secondo alcuni tale striscione fu commissionato da Siniša Mihajlovic, amico[11] della "Tigre"


LA SERBIA

La Repubblica di Serbia (serbo: Република Србија, Republika Srbija) è uno stato del sud-est dell'Europa, nella regione dei Balcani. Confina con Ungheria, Romania, Bulgaria, Macedonia, Albania, Montenegro, Bosnia-Erzegovina, Croazia; si tratta di uno stato senza sbocco al mare. La capitale è Belgrado.

La Serbia era unita al Montenegro nell'Unione Statale di Serbia e Montenegro, ma in seguito al referendum del 21 maggio 2006, il Montenegro ha votato per l'indipendenza. A seguito del referendum, la Confederazione è stata sciolta e la Serbia (così come il Montenegro) è divenuta uno Stato sovrano.

Il 17 febbraio 2008 la maggioranza albanese della Provincia serba del Kosovo ha proclamato unilateralmente la propria indipendenza con una dichiarazione approvata dal Parlamento del Kosovo. Il giorno seguente (18 febbraio) il Parlamento della Serbia ha dichiarato nulla e priva di ogni effetto la predetta proclamazione.

La Repubblica di Serbia è un paese membro delle Nazioni Unite, del Consiglio d'Europa е dell'Organizzazione della Cooperazione Economica del Mar Nero. L'entrata nel WTO è prevista per la fine dell'anno 2010. La Serbia è considerata dal Fondo Monetario Internazionale come un paese dallo sviluppo medio-alto con un'economia in crescita ed è stata proclamata dalla Freedom House paese libero.

I cittadini della Serbia dal 2009 possono viaggiare senza obbligo di visto nei Paesi dell'Unione Europea.

LA STORIA

Per molto tempo i serbi vissero divisi nei due patriarcali principati di Raška e Zeta. Nel 1170, Stefan Nemanja, grande zupan di Rascia dal 1159, riuscì ad estendere il suo potere sulle tribù serbe di Zeta. All'epoca del passaggio della Terza Crociata, capeggiata da Federico Barbarossa, Stefan Nemanja tentò di assicurarsi l'appoggio dei crociati; si incontrò perfino con il Barbarossa a Nich, nel 1189, e poi di nuovo l'anno seguente, ottenendo dall'imperatore di Bisanzio, Isacco II Angelo, il riconoscimento dell'indipendenza della Serbia. Dopo aver abdicato a favore di suo figlio minore Stefan (1196-1227), Stefan Nemanja si ritirò inizialmente nel monastero di Studenica e in seguito sul monte Athos, dove si trovava già un altro dei suoi figli, Rastko, più noto con il nome di San Sava. Stefan I riuscì, con difficoltà, a conservare l'indipendenza della Serbia, sia nei confronti dell'Impero Latino di Costantinopoli, formatosi dopo la Quarta Crociata, che dall'Impero Bizantino, ricostituito a Nicea. Nel 1219 Sava, riconosciuto come metropolita della Chiesa serba diventata indipendente, incoronò il fratello Stefano; di fatto si trattò di una seconda incoronazione, dal momento che il papa Onorio III aveva già inviato, nel 1217, una corona reale a Stefan, sperando invano di riunire la Chiesa Serba a Roma. Stefan I Prvovencani fu il vero fondatore della monarchia serba a vantaggio della dinastia dei Nemanjici.

Alla sua morte, nel 1227, la Serbia completò la propria riorganizzazione attorno alla Raška, che ne divenne il centro, durante il regno dei figli di Stefan I, Radoslav (1227-1233), Vladislav (1233-1243) e Uros I (1243-1276).

La dinastia dei Nemanjic era riuscita a tenere la Serbia distante dalle crisi che all'epoca devastavano i Balcani e a mantenere il Principato indipendente. Durante il regno di Stefan VI Uros II (1282-1321) e di Stefano VII Uros III (1321-1331), la Serbia estese il suo potere in Macedonia e in Bulgaria, ma fu con Stefan IX Dusan (1333-1355) che essa conobbe il suo apogeo e il massimo fiorire della sua civiltà. Stefan IX Dusan regnava all'epoca su di un "impero" che comprendeva la Rascia, la Zeta, la Macedonia, l'Albania e la Tessaglia, per giungere infine al golfo di Corinto. Fu allora che la Serbia si rese definitivamente indipendente dalla tutela del patriarca di Costantinopoli e,nel 1346, l'arcivescovo di Pec fu elevato al rango di "patriarca di tutti i serbi". Da quel momento fino ad oggi il Patriarca di Pec sarà eletto da soli vescovi serbi. D'altronde fu proprio questo patriarca a incoronare a Uskub Stefan Dusan, col titolo di "zar di tutti i serbi". La tradizione ha fatto di Dusan il "Carlo Magno della Serbia".

Con la sconfitta avvenuta il 15 giugno 1389, quando Murad sbaragliò le forze serbe guidate dal principe serbo Lazzaro nella storica battaglia di Kosovo Polje, ed i successivi scontri nel nord del Paese, per la Serbia è iniziato il lungo periodo di dominazione ottomana (1459-1804). I serbi della Serbia propriamente detta, ovvero la grande maggioranza del popolo serbo, furono soggetti a un rigido regime di occupazione militare, provocato oltretutto dal loro categorico rifiuto di convertirsi alla fede musulmana. Le terre dei serbi diventarono proprietà del sultano che le trasformò in feudi militari ereditari o attribuiti in vita a funzionari turchi. Come era avvenuto già in Bulgaria e in Albania, i contadini serbi diventarono fittavoli degli occupatori turchi e tutte le famiglie serbe dovettero rifornire periodicamente l'esercito di reclute per il corpo dei Giannizzeri. La Chiesa Ortodossa Serba diventò a quel punto l'anima della resistenza. All'inizio dell'occupazione turca, la tolleranza era quasi totale e il patriarcato serbo di Pec (nella regione del Kosovo) venne ristabilito nel 1557, ma, dopo il fallimento della rivolta del 1688-1690, migliaia di serbi guidati dal Patriarca di Pec Arsenije III dovettero rifugiarsi in Ungheria, dove il re Leopoldo I concesse loro terre e privilegi: questa fu l'origine della popolazione serba nelle provincie meridionali dell'Ungheria. Per rappresaglia, i turchi soppressero il patriarcato di Pec e il clero serbo rimasto in patria venne annesso alla chiesa ortodossa greca.


Le terre serbe nel IX secolo secondo il De Administrando Imperio dell'imperatore bizantino Costantino VIILa Serbia, con l'inizio del XIX secolo, sostenuta anche dall'Impero Russo, ha cercato di aumentare la sua autonomia rispetto all'Impero Ottomano e si è strutturato nel semi-indipendente Principato di Serbia (1815). Il Principato è stato caratterizzato da una lotta interna fra le due dinastie più potenti del Paese, gli Obrenović e i Karađorđević. Il risveglio dei serbi di Serbia non fu solamente politico ma anche intellettuale. L'insegnamento compì sensibili progressi: nel 1835, secondo i dati dell'epoca, vi erano in Serbia 60 scuole elementari e nessun istituto superiore; nel 1859, il numero delle scuole elementari era arrivato a 352, di cui 15 riservate alle ragazze, alle quali bisogna aggiungere l'istituto di istruzione superiore di Belgrado, aperto nel 1855. Tuttavia i serbi di Serbia erano nettamente in ritardo in questo campo in rapporto ai loro fratelli che vivevano nell'impero asburgico.


Pietro I KarađorđevićAll'indomani del Congresso di Berlino, in cui venne ufficialmente riconosciuta come Stato Sovrano, la Serbia rimaneva un piccolo paese con poco più di 50.000 km quadrati, con strutture arcaiche e una popolazione di poco inferiore ai 2 milioni di abitanti. Senza accesso al mare, priva di ferrovie, la Serbia era costituita da un'immensa società contadina di piccoli e medi proprietari, le cui attività principali consistevano nella coltivazione dei cereali, nell'arboricoltura e nell'allevamento di maiali. Le pochi industrie manifatturiere erano specializzate nella trasformazione di prodotti agricoli. La sola città importante all'epoca era Belgrado, la capitale, con circa 30.000 abitanti.

Nel 1878 il Congresso di Berlino ha riconosciuto l'indipendenza della Serbia e del vicino Montenegro.

I due Stati hanno partecipato alle Guerre Balcaniche (1912-1913) contro Turchia prima e Bulgaria poi, uscendone rafforzati e ampliati territorialmente. Il progetto di una possibile unificazione dei due Regni è stato bloccato però dall'Austria-Ungheria.

La stessa Austria-Ungheria ha dichiarato poco tempo dopo guerra (28 giugno 1914) all'ambizioso Regno di Serbia, dopo l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando da parte di Gavrilo Princip, un nazionalista serbo.

Dopo la conclusione del primo conflitto mondiale, la Serbia, che aveva sostenuto il peso della guerra dalla fine del luglio 1914 e aveva subito perdite umane pari a quelli delle potenze occidentali, uscì ingrandita dal conflitto (con l'acquisizione della Vojvodina) e divenne parte del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (dal 1929 Regno di Jugoslavia), sotto la dinastia dei Karađorđević.

Durante la Seconda guerra mondiale, a seguito dello smembramento del Regno di Jugoslavia, la Serbia è divenuta uno Stato fantoccio della Germania nazista affidato da Hitler al generale Milan Nedić, lo stesso che nel 1918 ha fatto firmare la resa agli Imperi Centrali, in modo simile al generale Pétain in Francia, ed al nazista serbo Dimitrije Ljotić. Il Governo filonazista di Nedić ha collaborato pienamente con la Germania sino alla liberazione congiunta della capitale da parte dell'Armata Rossa e dei partigiani jugoslavi nell'ottobre 1944.

Tito in quell'occasione ha abbandonato l'isola di Lissa dove era sotto protezione inglese, e si è trasferito a Belgrado dove, per rendersi accettabile dalla città ostile al comunismo, ha proceduto ad ampie amnistie ai collaborazionisti integrandoli nella Armata Popolare di Liberazione.


Bandiera della Repubblica Socialista di Serbia
La fortezza di GolubacDopo la Seconda guerra mondiale, la Serbia ha costituito una delle sei Repubbliche della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (1945-1991), guidata per un lungo periodo da Tito. Immediatamente dopo la morte del maresciallo i nazionalismi e i particolarismi etnici e religiosi, imbavagliati da quasi 40 anni di comunismo si risvegliarono. In Serbia ciò avvenne con l'ascesa al potere di Slobodan Milošević, in Croazia con la fondazione dell'Unione Democratica Croata di Franjo Tuđman e l'aria di secessione invase ben presto il territorio jugoslavo. Le struttura statale della Jugoslavia si bloccò definitivamente agli inizi degli anni 90, con l'ennesima crisi nella provincia meridionale del Kosovo, ormai a maggioranza albanese, che chiedeva apertamente la definitiva indipendenza dalla Serbia. La Repubblica Socialista di Serbia, che considerava il Kosovo già sufficientemente autonomo rispetto a Belgrado e preoccupata per gli effetti della formazione di un secondo stato albanese nei Balcani, respinse le richieste albanesi e chiese aiuto a Slovenia e Croazia. Tuttavia i rappresentanti sloveni e croati guardavano con preoccupazione la nuova ondata di nazionalismo in Serbia e negarono l'aiuto. Il 25 giugno 1991 gli Sloveni, incuranti dei moniti di Belgrado,proclamarono l'indipendenza della Slovenia. La tensione si acuì e si trasformò in guerra civile dopo la proclamazione di indipendenza della Croazia.Lo scontro tra la minoranza serba che aveva fondato uno stato autonomo sostenuto più o meno apertamente da Belgrado e le autorità croate culminò nel 1995 con l'Operazione Lampo. Al termine di questa impresa militare la Croazia aveva allontanato dal suo territorio più di 200.000 serbi che si rifugiarono in Serbia e in Bosnia riportando il proprio controllo su tutte le zone occupate dall'Esercito Jugoslavo. Il 29 febbraio e il 1 marzo si tenne dunque nel territorio della Bosnia-Erzegovina il referendum sulla secessione dalla Jugoslavia. Il 64% dei cittadini si espresse a favore. I Serbi boicottarono però le urne e bloccarono con barricate Sarajevo.La guerra si concluse ufficialmente con gli Accordi di Dayton. Da ciò derivò una guerra civile che devastò il territorio della Bosnia e che ebbe il suo apice nel massacro di Srebrenica, un massacro che il governo di Belgrado solo di recente ha condannato. Nel 1992, in seguito allo scioglimento della RSFJ, Serbia e Montenegro si sono associati nella Repubblica Federale di Jugoslavia (1992-2003), divenuta Unione di Serbia e Montenegro nel 2003.

Con il referendum che si è svolto in Montenegro il 21 maggio 2006, il Montenegro ha deciso di uscire dall'Unione e di ottenere il riconoscimento internazionale e la piena indipendenza. La Serbia ha ottenuto così, indirettamente, la ricostituzione di un'entità statale nazionale autonoma dopo circa 90 anni in cui aveva sperimentato progetti di Federazione e Confederazione con le altre Regioni abitate dagli Slavi del Sud. Come stabilito dalla Carta Costituzionale della Confederazione, la Serbia è stata riconosciuta come diretto successore dell'Unione Statale, ereditando il seggio della Confederazione all'ONU, le associazioni alle organizzazioni internazionali e tutti i trattati bilaterali stipulati con gli altri paesi.